Torniamo a parlare di lavoro all’estero e, nello specifico, torniamo a Londra – o meglio – al mito di Londra visto dall’Italia e a come è veramente viverci e lavorarci.
Ne ho parlato con Rosy Strati – architetta, insegnante di interior design e wedding designer – e devo dire che la conversazione è stata delle più interessanti perché i temi di cui abbiamo discusso sono quasi tutti quelli trattati in questo blog: i diversi possibili impieghi per i laureati in architettura, il concetto di cambio strada/cambio vita, l’esperienza di lavoro all’estero e il fatto di essere una donna (e una madre) in questo ambiente.
“Ma partiamo dal principio. Quali sono stati i tuoi primi passi come architetta?”
Ho studiato architettura a Firenze, dove mi sono laureata nel 2001 con una tesi in restauro. Ancor prima della laurea mi ero indirizzata verso l’editoria di settore, lavorando per le riviste Area e Materia, tramite lo studio Archea di Firenze. Grazie ad una borsa di studio Leonardo, nel 2003 sono partita per fare la mia prima esperienza lavorativa a Londra, come editor per la Phaidon Press, una rinomata casa editrice specializzata in arte, architettura e design. A pensarci adesso, con le difficoltà che ci sono oggi nel nostro settore, mi rendo conto di aver iniziato con delle incredibili opportunità!
L’editoria mi piaceva, ma volevo provare a fare quello per cui avevo studiato, l’architetta, nel vero senso della parola. Sono tornata in Italia, senza conoscere niente della situazione lavorativa nel nostro paese, e per cinque anni ho inanellato varie esperienze lavorative, tra Firenze e Venezia. Ho lavorato nella progettazione di grandi strutture per una società di ingegneria, negli interni, nella grafica e anche per uno studio specializzato in rilievi di edifici storici.
Poi a 31 anni la grande decisione, tornare a Londra, questa volta definitivamente: era il 2007.
“Che cosa non ti convinceva dell’Italia?”
Nessuno degli studi per cui avevo lavorato mi aveva mai offerto un contratto vero e proprio, ma sempre collaborazioni a tempo – più che determinato – direi incerto.
Ero stufa di orari interminabili, stipendi bassissimi e nessuna certezza. Ma soprattutto avevo la sensazione di non imparare nulla. Non mi venivano mai date responsabilità, non venivo mai veramente coinvolta nei progetti, ma piuttosto spostata da una commessa all’altra a seconda della necessità del momento, senza vedere mai un cantiere o un progetto dall’inizio alla fine.
Mi sembrava di vagare senza meta, di non crescere. Londra mi chiamava nuovamente: dopo aver mandato qualche CV ho trovato lavoro quasi subito e sono partita.
“Parlami del tuo lavoro a Londra”.
Ho lavorato per tanti anni in un piccolo studio di architettura a South Kensington che si occupava di progettazione di interni. La mia capo era una Lady, una vera nobildonna inglese. I clienti erano facoltosi e cercavano un design di qualità, i progetti belli e curati. Ho imparato moltissimo in quei sei anni, è stato il periodo in cui ho vissuto al massimo la professione.
Ho cominciato anche ad appassionarmi alla decorazione, all’uso di materiali meno diffusi negli interni italiani e invece molto comuni in Inghilterra, come la carta da parati e le stoffe. Nel 2009 ho deciso di rimettermi a studiare e ho frequentato la KLC School of Design, che mi ha aperto le porte dell’Interior Design.
“Quali sono le principali differenze con l’Italia?”
La differenza col mondo del lavoro italiano è incredibile: qui, anche se sei giovane, vieni preso in considerazione e ti viene data l’opportunità di crescere. Una cosa che mi colpì moltissimo fu che la mia capo, ovviamente molto più matura ed esperta di me, già al mio primo meeting mi presentò ai clienti come “collega”: in tanti anni di lavoro in Italia non mi era mai capitato.
Inoltre qui la gente ancora dà molto credito alla figura dell’architetto. Nessuno si sogna di coinvolgere altri professionisti se non gli architetti quando si tratta di progettare o ristrutturare la propria casa.
Infine c’è da dire che grazie alla maggiore disponibilità economica dei clienti c’è molta più possibilità di lavorare a progetti belli ed interessanti.
In ogni caso la professione non è tutta rose e fiori neanche qui, i ritmi sono pesanti e gli orari di lavoro vanno ben oltre le tradizionali 5 del pomeriggio inglesi. Anche qui c’è tanta normativa da mettere in conto, pratiche lunghe e tanti permessi da chiedere, che riducono molto la componente creativa della professione. Gli stipendi sono più alti di quelli dei colleghi italiani, ma considerando il costo della vita di Londra, sono decisamente bassi se paragonati ad altre categorie professionali e in relazione alla mole di lavoro e responsabilità.
“Qual è stato l’evento che ti ha fatto cambiare vita?”
La nascita dei miei figli. Già dopo il primo avevo avuto qualche difficoltà a tornare al lavoro, ma ci ero riuscita grazie ad un part-time verticale di tre giorni a settimana. Con la nascita della seconda, tre anni fa, mi è stato praticamente impossibile rientrare, a causa sia delle difficoltà organizzative del lavoro, sia delle problematiche di una città dalle distanze infinite e dai costi degli asili improponibili.
Perché il mio lavoro in studio continuasse ad avere un giusto riscontro economico, avrei dovuto rinunciare completamente al tempo con i miei figli. Considerando che anche mio marito lavora nell’architettura e anche lui fa spesso straordinari sotto consegna, ho capito immediatamente che tornare a lavorare full time sarebbe stato problematico. Potevo quindi scendere di ruolo e avere un part-time, con meno responsabilità lavorative, oppure dilapidare tutto il mio stipendio in childcare e vedere i miei figli la sera e nel fine settimana. Ed è così che ho smesso di lavorare come architetta.
“Come hai vissuto questa scelta?”
In realtà non l’ho vissuta come una scelta definitiva, pensavo che sarebbe stata una situazione momentanea, e lo penso ancora. Però in quel periodo ho riflettuto tanto: fare l’architetto richiede moltissime energie, e finché ero sola con la mia passione mi andava bene tutto, ma nel momento in cui mi sono accorta che il lavoro comprometteva la mia vita familiare, ho sentito che il gioco non valeva più la candela, non qui a Londra, non nella mia situazione, non in quel momento.
Non ne faccio di certo una regola generale: ogni situazione è diversa. Nel mio caso, sommando il tempo che avrei trascorso fuori casa, per lavoro o spostamenti da un punto all’altro della città, e i costi esorbitanti degli asili e delle baby sitter, non me la sono sentita di continuare con un lavoro full time.
Nel frattempo cominciavo anche a riappropriarmi di una dimensione più umana che avevo perso: poter gestire come volevo i miei tempi era per me una cosa del tutto nuova. Mi rendevo conto di aver passato quasi dieci anni della mia vita chiusa in studi di architettura senza vedere altro che un computer (o quasi): la verità è che ero anche stanca di questo modo di vivere.
“Quali sono stati i tuoi passi successivi?”
La mia idea era quella di continuare a fare l’architetta come libera professionista. Ma due anni fa, mentre cercavo di capire come organizzarmi, mi sono imbattuta in una scuola di Interior Design che cercava dei docenti. Insegnare mi è sempre piaciuto (in Italia ero stata per cinque anni assistente all’Università) e così ho deciso di provarci. Non che ci credessi molto, soprattutto perché non avevo l’eccellente livello di inglese scritto e parlato che viene solitamente richiesto in queste professioni. E invece, come tutte le cose che ho iniziato un po’ per gioco, è andata meglio di quello che potessi immaginare. L’esperienza lavorativa ha avuto la meglio sulla lingua e il lavoro mi è stato offerto immediatamente. Così è iniziata la mia avventura come Interior Design Tutor per la British Academy of Interior Design.
L’insegnamento mi piace moltissimo, mi fa tornare a quello stadio di architettura fatta di idee e creatività, priva di tecnicismi, burocrazia e ostacoli economici.
Mi piace trasmettere agli studenti tutto quello che so, mi piace vedere i loro progressi, e come a poco a poco imparano a dare forma alla loro creatività. E soprattutto mi permette di conciliare meglio la mia vita professionale e gli impegni familiari.
“Però l’insegnamento non è la tua unica attività”.
No, perché allo stesso momento, e sempre un po’ per gioco, ho iniziato ad occuparmi anche di wedding design con il mio progetto Wedding in Wonderland, e lo faccio ormai da cinque anni. Ho sempre avuto la passione per la progettazione di eventi, e l’ho riscoperta in particolare organizzando il mio matrimonio.
Grazie ad una serie di coincidenze fortuite, nel 2011 ho avuto l’opportunità di organizzare il matrimonio di una coppia australiana che è poi stato pubblicato su una rivista del settore, e da lì è cominciato tutto.
Da allora non mi sono più fermata: organizzare matrimoni mi piace e mi diverte, mi viene anche estremamente naturale perché lo sviluppo dell’evento è un progetto creativo. Nell’impostazione del lavoro rivedo molto della mia attività di architetta: gestire e coordinare una serie di professionisti e di servizi diversi entro tempi specifici e ovviamente nel rispetto di un budget, per creare qualcosa di bello e di unico per i tuoi clienti.
“Viene da chiedersi come tu riesca ad occuparti di tutto!”
In effetti inizio a fare un po’ fatica! Nell’ultimo anno i clienti sono aumentati molto. Sto lavorando soprattutto per sviluppare la parte più creativa di questa professione e specializzarmi nel design di eventi particolari, fuori dai soliti schemi del matrimonio classico.
Al momento riesco a tenere insieme tutto, ma è dura, soprattutto con due bambini piccoli, lontana dalla famiglia e quindi senza grandi aiuti, in una città che non è propriamente facilissima da vivere. Però per ora non voglio fare una scelta. Amo insegnare, e mi piace l’idea di continuare nel campo in cui ho studiato e lavorato tanto, ma al tempo stesso l’attività di wedding planning è qualcosa che ho creato dal nulla, una mia creatura che sta crescendo a poco a poco e che mi dà la possibilità di spaziare in una dimensione lavorativa nuova, più libera e multidirezionale. Un lavoro ogni giorno diverso, che richiede competenze incredibilmente variegate e che ti porta a contatto con tantissime persone. E non ultimo, che mi permette di rimanere costantemente in contatto col mio paese (organizzo principalmente matrimoni in Toscana). La mia ambizione è di continuare su entrambe le strade.
“E in tutto questo, l’architettura?”.
Ricordo che mio padre commentò la mia scelta di studiare architettura dicendomi: “Farai fatica a gestire questa professione con una famiglia“. E così è stato.
In effetti, se penso ai miei colleghi italiani, tra quei pochi che fanno l’architetto nel vero senso della professione, sono pochissimi quelli che hanno famiglia (e li ammiro moltissimo). Molti di loro hanno cambiato lavoro: qualcuno ha vinto un concorso in comune e qualcun altro lavora per aziende di arredamento, qualcun altro ancora si è buttato sulla grafica. Però ecco, quelli che esercitano la professione “pura”, che progettano davvero, sono pochissimi, e molti di loro non hanno famiglia. Non so se debba necessariamente essere così, ma nella mia esperienza personale è davvero difficile conciliare le due cose, specie per una donna.
Al di là di questo, sento di molti colleghi colpiti dall’archinoia, che abbiano famiglia o meno. Credo succeda a tutti coloro che hanno preso questa strada con velleità più creative. Sono sempre di più gli architetti che si indirizzano verso altre strade.
Detto questo, non credo di aver chiuso completamente con la mia professione. L’insegnamento mi sta facendo venire voglia di ricominciare, quindi chissà! Due lavori con una famiglia sono già cosa ardua: tre poi! Ma so che prima o poi ricomincerò, forse quando i bimbi saranno più grandi. So che qui lo posso fare.
In passato ho vissuto un po’ male il mio non essere “unidirezionale”, il non avere una unica grande passione, il fuoco sacro dell’architettura. Ma oggi ho accettato di essere così. Sono una creativa, mi piace cercare, creare e trasmettere cose belle. Mi piace farlo come architetta, ma mi piace anche poterlo fare in altri campi. E’ nella mia natura, non riesco a fare sempre la stessa cosa e non riesco a fare una cosa sola. Oggi riesco a viverlo come un pregio, e non più come una cosa negativa.
“Per concludere su Londra, che cosa mi dici della Brexit?”.
Siamo tutti preoccupati per il modo in cui la situazione verrà gestita, che per ora rimane un po’ indefinito. Al momento non ci sono state grandi conseguenze sulla nostra vita. Per tanti motivi ci piacerebbe moltissimo tornare in Italia: la qualità della vita del nostro paese non ha paragoni. Nonostante siano passati 10 anni ci manca ogni giorno tantissimo, ma il lavoro qui a Londra al momento va molto bene e sappiamo che in Italia non sarebbe la stessa cosa. A dirla tutta, qui, nonostante tutte le difficoltà, ci sentiamo sicuri e vediamo un futuro: in Italia ci troveremmo di fronte a un punto interrogativo che con due figli non siamo sicuri di volerci mettere davanti. Sappiamo che torneremo, ma forse non è ancora il momento giusto.
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Credits foto:
Le prime due foto che ritraggono Rosy sono di sua proprietà.
Le foto dei matrimoni:
– n. 1 e 2 di Rosapaola Lucibelli
– n. 3 di Lelia Scarfiotti
– n. 4 e 5 di Innocenti Studio
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