Ma gli architetti costruiscono solo edifici?
E’ ciò che fanno nell’immaginario collettivo (tranne le architette che si occupano solo di interni). E invece no: il campo della nostra attività può essere molto più vasto, ed ogni specializzazione richiede la giusta dose di formazione ed esperienza. Oggi parliamo di scenografia ed allestimenti con Giuliano Lovati, architetto, che ci racconta anche qualcosa sulla vita da freelance.
Giuliano è stato un mio collega nel tempo brevissimo in cui ho lavorato nello scintillante mondo della moda milanese. Lui dice di essere stato il mio capo, ma io questa cosa non me la ricordo proprio: però potrebbe essere stato fra i primi ad accorgersi della mia tendenza all’archinoia.
L’appuntamento per questa “intervista” è fissato per una sera di un qualsiasi mercoledì di lavoro. Mi squilla il telefono: “Scusami, sono un po’ in ritardo perché mi sono addormentato sul divano: ero stanco perché ho passato tutto il pomeriggio all’Ikea”. Vita da dipendente a partita Iva versus vita da freelance: ikea + divano sono cose per le quali in questo momento pagherei!
Giuliano, in che cosa consiste esattamente il tuo lavoro?
Mi occupo prevalentemente di progettazione e realizzazione di allestimenti e scenografie per eventi come fiere, convention e mostre. I miei clienti sono direttamente le aziende oppure, più facilmente, le agenzie che si occupano di questo tipo di eventi.
Sono un architetto, o forse più uno scenografo, e anche un po’ psicologo: in questo lavoro, infatti, è fondamentale capire subito chi si ha di fronte, se si tratta di un art director, di un account, o di qualcuno che lavora per l’ufficio acquisti, perché spesso il tuo interlocutore non sa nulla del tuo lavoro e non ha nemmeno le idee chiare in merito a cosa vuole da te.
Il mio lavoro consiste proprio nel dare forma all’idea del cliente e trasformare in scenografia gli input che mi vengono dati.
Per farlo, la gestione dei rapporti è fondamentale: bisogna saper fare le domande giuste per ottenere le giuste informazioni e non lavorare a vuoto. Qualche domanda in più è sempre meglio di qualche domanda in meno
Qual è la tua formazione?
Già da bambino costruivo case di cartone: avrei voluto fare il geometra, ma poi, non si sa come, sono finito al liceo scientifico.
Mi sono iscritto alla facoltà di architettura perché girava voce che si studiasse poco: immaginavo che avrei passato le giornate a costruire modellini e che non avrei fatto fatica in matematica vista la mia formazione scientifica. Devo dire che non è andata proprio così, infatti sono stato quattro anni fuori corso.
La pura progettazione mi è sempre piaciuta. Quando lavoravo come dipendente mi sentivo solo un esecutore perché non potevo occuparmi della fase creativa: è uno dei motivi per i quali oggi sono un freelance.
Come si è configurato il tuo percorso professionale?
Durante gli studi ho iniziato a lavorare come scenografo per l’agenzia di famiglia di un’amica. Può sembrare un inizio interessante e creativo, ma era comunque un lavoro d’ufficio e, per come sono fatto, ho avuto grandi difficoltà ad adeguarmi ad un orario fisso dalle 9 alle 18. Ho sempre pensato di voler fare il libero professionista proprio per poter gestire liberamente il mio tempo, ma quando si è agli inizi di una professione è difficile avere davvero idea di come si lavori, quindi credo che comunque sia utile lavorare per un po’ da dipendenti.
Ho proseguito nell’ufficio tecnico di un falegname: di questa esperienza mi ha dato tantissimo il rapporto diretto con l’officina e con la concretezza delle persone che ci lavoravano. Ancora adesso mi piace il rapporto con i tecnici che realizzano i miei progetti, che sanno andare dritti al sodo e prendere la vita più semplicemente.
Alla prima esperienza con gli allestimenti la difficoltà più grande è stata lo scontro con la personalità egocentrica da archistar del mio capo che proprio non riusciva a lasciarmi spazio, mentre io avevo bisogno di esprimermi. Al contrario, il capo successivo mi ha lasciato libero di fare: sono stato io ad iniziare il settore della scenografia nella sua agenzia e ha avuto fiducia in me, almeno inizialmente. Poi la mia vocazione freelance si è fatta un po’ troppo sentire e così ho scelto di andare per la mia strada.
È stato difficile iniziare a lavorare per conto tuo?
Quando ho preso questa decisione avevo ormai imparato molto, soprattutto lavorando con i creativi della moda e gestendo i service di falegnami, audio, luci. Avevo già svolto lavori da freelance e piano piano ho pensato di potermela cavare da solo. Ho accettato il rischio, inevitabile, anche perché contemporaneamente ho cambiato città: sono andato a Roma per amore. Ho pensato che comunque avrei avuto le spalle abbastanza coperte: il “peggio” che poteva capitarmi era tornare a casa dai miei genitori, ma alla fine non ho dovuto chiedere il loro aiuto.
E poi com’è andata?
Bene! Certo, ci sono stati periodi più o meno positivi, come ce ne sono tuttora. La parte più difficile era ovviamente trovare dei lavori. All’inizio mi sono mosso tramite conoscenze ottenute durante il lavoro da dipendente. Poi da un contatto ne arriva un altro anche grazie al passaparola, se fai un buon lavoro. Mi sono costruito un portfolio e poi è arrivato il sito. Per un freelance avere sito internet e portfolio digitale è fondamentale, e se possibile la loro realizzazione andrebbe affidata a chi lo fa di mestiere, senza improvvisarsi, se non si è capaci.
Mi sono spesso autocandidato mandando in giro il mio portfolio, certo non a caso, ma cercando di individuare il contatto giusto all’interno delle società e poi trovando il coraggio di alzare il telefono per chiedere se fossero interessati a collaborare con me. Nei periodi in cui ho poco lavoro continuo a farlo.
Quali sono gli aspetti più importanti che chi lavora come freelance deve curare?
Per un freelance è importantissimo saper affrontare e risolvere problemi in breve tempo. Per esempio, se ti chiedono un’idea per un lavoro e tu sei in vacanza, devi improvvisare e ingegnarti e magari anche uno schizzo fotografato col cellulare e inviato via whatsapp può funzionare. Mai impuntarsi a ricercare la perfezione altrimenti si rischia di perdere le occasioni.
Un ulteriore consiglio?
Il disegno deve essere il più semplice possibile, e soprattutto deve essere pensato per chi lo deve leggere. Se è per il cliente deve avere un certo linguaggio e puntare a specifici aspetti, lavorando più sui render, per esempio; se è per l’allestitore deve facilitargli il lavoro senza fargli perdere tempo.
È un discorso che vale anche per il disegno tecnico: io all’inizio disegnavo tutto, fino al dettaglio di dove doveva essere messa la vite. Poi ho capito che era controproducente e mi faceva perdere tempo perché tanto l’esecutore finale la vite la mette dove gli pare e nella gran parte dei casi la sua decisione è più giusta della mia, sulla base della sua esperienza. È importante fidarsi degli allestitori che spesso ne sanno più di te, soprattutto quando sei all’inizio.
Quali sono la principale difficoltà e il principale vantaggio di lavorare da soli?
Lo svantaggio principale credo che sia l’isolamento che si può provare in certi momenti, che porta facilmente a distrarsi e a bloccarsi nel lavoro: io cerco di superarlo uscendo di casa ed andando a lavorare da qualche altra parte oppure trovando delle collaborazioni.
Il vantaggio fondamentale di lavorare da soli è certamente la libertà di gestire la tua giornata, che non ha prezzo, e che, per esempio, ti permette di avere il giusto tempo da dedicare a corteggiare una che ti piace all’inizio di una nuova relazione… [E dici poco! NdR].
Qual è stato il progetto che ti ha dato più soddisfazione? Raccontaci l’iter dall’inizio alla fine.
Un’agenzia con la quale spesso collaboro mi ha coinvolto per il Taste, un evento che riunisce tanti ristoranti stellati in una di quelle occasione costose e chic alle quali io come utente non parteciperei mai.
In quell’occasione sarebbe stato organizzato al chiuso: dagli stand del Parco Sempione, in mezzo al verde, sarebbe passato agli stand in un capannone per eventi. Fra le richieste c’era quindi quella di portare il verde all’interno, fra i pilastri di acciaio e il cemento. Il budget, come sempre, era basso. Personalmente, mi sono piaciute sia la sfida di portare il verde dentro, sia la ricerca della soluzione giusta realizzabile con i pochi soldi a disposizione: perché ci vuole fantasia e perché è necessario essere pratici, ed io in questo sono ben allenato.
E da lì è partito il progetto. Ho mischiato il bianco dei pannelli con le travi in legno chiaro (abete, il più economico), ho aggiunto il verde, con piante vere che una serra ci forniva gratis: ho scelto piantine aromatiche e piccoli vasi di fiori.
Non sempre sono io a decidere gli elementi a disposizione: devo riuscire a ottenere il meglio da quello che mi viene dato. Il progetto è piaciuto e così siamo partiti.
La prima riunione si è tenuta nella location dell’evento alla presenza di tutte le persone coinvolte. A guidarci, il direttore di produzione, per spiegarci le caratteristiche generali dell’allestimento: dove saranno gli stand, la posizione degli scarichi, le prese elettriche, e così via. Il tempo di adeguare qualche disegno e poi siamo tornati là dove tutto quello che ho disegnato sarebbe stato costruito.
Durante l’allestimento io dovrei essere presente in cantiere ogni tanto, per verificare che tutto vada come da progetto, ma in questo caso specifico sono rimasto ogni giorno, per dieci o undici ore di fila, a correre insieme a tutti gli altri, a montare, organizzare, telefonare, in continuo movimento: solo così mi sono sentito non più solo un nome stampato su un disegno, ma un pezzo della macchina che costruisce.
Una volta un allestitore mi ha detto che non sembro un architetto, e dal suo punto di vista questo era un grande complimento. E un merito me lo riconosco: di aver rotto il muro che c’è fra chi progetta e chi costruisce, figure di solito antagoniste, che si accusano reciprocamente di non capirci niente del lavoro.
Ma cosa ha reso questo cantiere speciale?
Durante il cantiere del Taste ho incontrato questo allestitore – tutti lo chiamano Sbocco – ha cinquant’anni ed è un po’ goffo ed ogni mattina mi salutava con “ciao architetto”: ogni giorno mi accorgevo dei suoi tentativi di mostrarmi come stava realizzando il mio progetto, di spiegarmi il perché quella cosa l’aveva fatta in quel particolare modo. Mi faceva capire che ci teneva a realizzare al meglio il mio lavoro, ed io così mi sono accorto che quando rompi quel famoso muro poi diventi una squadra. E che anche nel lavoro possono subentrare stima e rispetto, complicità, amicizia e affetto, che sono la parte più importante, e che alla fine riescono anche a far realizzare il progetto al meglio.
E così il lavoro è bello.
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