Tu, architetta che ti accingi a leggere questo post, sei mai stata discriminata sul lavoro in quanto donna? Lo so che stai annuendo, perché il nostro è un campo ancora molto maschilista e chi più chi meno abbiamo tutte qualcosa da raccontare in merito. E ora è anche argomento di un dottorato.
Maria Silvia si è laureata in architettura a Firenze e ora sta facendo un dottorato in sociologia a Brighton su un tema davvero interessante: la questione di genere nel mondo dell’architettura e le relative implicazioni per le donne che lavorano in questo campo. Sono venuta a conoscenza del suo lavoro leggendo un post sul blog di ADA Associazione Donne Architetto e successivamente tramite il suo blog Women in Architecture e ho subito pensato che avrei voluto contattarla per approfondire con lei un tema che anche per me ha estrema importanza. Ho procrastinato, come sempre, ma a quanto pare quando si desidera intensamente una cosa alla fine accade: è stata Maria Silvia a contattarmi per prima e io non mi sono fatta scappare l’occasione per coinvolgerla in questa intervista.
Partiamo dalle basi: ma tu la definizione “architetta” la usi?
Ultimamente si parla molto di questo discorso dei generi femminili delle professioni: sindaca, ingegnera, postina. Con architetta non siamo state molto fortunate, suona proprio male, quindi più spesso si è portate ad usare “architetto donna” o “un’architetto” con l’apostrofo dopo l’articolo.
Però credo che di questi tempi sia di fondamentale importanza abituarci a dire “architetta”: è come se fosse un atto politico in cui affermiamo la nostra esistenza in quanto architette e non in quanto architetti difettosi, che hanno bisogno di un ulteriore aggettivo per diventare complete.
Come hai capito che non avresti fatto la progettista?
Già all’università mi sembrava che fosse indispensabile essere molto determinate e un po’ egocentriche per riuscire a primeggiare nel mondo dell’architettura e io non ho mai amato essere in prima fila: mi sembrava di non avere l’ambizione giusta per riuscire bene su questa strada. Della facoltà di architettura mi piaceva però la varietà delle materie affrontate che spazia dalla storia dell’arte alle discipline scientifiche.
Dopo la laurea e l’esame di stato ho provato a lavorare per un anno in uno studio di progettazione di interni con altre progettiste. È stata una bella esperienza perché mi occupavo di moltissime attività diverse, però si trattava sempre di piccoli progetti, alla lunga poco interessanti. Parlando con altri amici laureati in architettura che lavoravano invece in studi più grandi, avevo l’impressione che in quei contesti si finisse per essere sempre più specializzati: per esempio c’era chi progettava sempre e solo bagni. Ma più di tutto non mi andava davvero l’idea di passare la vita seduta davanti ad un computer.
Ho partecipato ad un bando per il servizio civile e mi è capitato di poterlo svolgere presso la biblioteca della facoltà di architettura di Firenze, la mia università. Ho sempre avuto la fissa per le biblioteche ed è proprio qui che ho iniziato ad approfondire il tema che poi sarebbe diventato l’oggetto del mio dottorato. Ho continuato a lavorare part-time nello studio di progettazione, poi però mi sono accorta che lavorare in biblioteca mi dava più soddisfazione, così ho lasciato lo studio e ho proseguito questa esperienza.
Come sei arrivata ad occuparti di uguaglianza di genere in architettura?
La questione femminile mi ha sempre appassionata, da molto prima di iniziare a studiare architettura. La declinazione del tema nell’ambito della parità sul lavoro nella mia professione è nata nel periodo in cui facevo il servizio civile nella biblioteca di facoltà, grazie, fra l’altro, ad un libro trovato per caso nel settore dei testi in lingua straniera “Architecture and Feminism“. In questo caso, e in altri testi dello stesso periodo, l’argomento era più che altro il differente approccio alla progettazione delle donne rispetto agli uomini, quindi non esattamente quello di maggiore interesse per me, ma è stato un inizio. Così ho deciso per il dottorato e ho scelto la Gran Bretagna perché ho sempre desiderato viverci. Inoltre credo che in UK ci sia più attenzione per le questioni di genere rispetto all’Italia: per esempio si è già tenuta una prima indagine statistica a livello nazionale sulle donne in architettura. Ho scritto la proposta per il dottorato, ho scelto alcune università inglesi e scozzesi, poi mi sono concentrata su Brighton e ho contattato dei professori della Sussex University e della Brighton University come supervisor. Ho scelto infine il Dipartimento di Sociologia della Sussex University, con il suo Centro Studi di Genere, e due supervisor uomini, cosa che mi ha procurato alcune critiche. I due supervisori che mi seguono si stavano già occupando di studi sul genere legati all’ambiente di lavoro e, a mio parere, il fatto che siano uomini non cambia la loro sensibilità sull’argomento.
Prima di iniziare il dottorato, ho seguito un master per un anno sui “Metodi di ricerca sociale“, dato che avrei dovuto affrontare argomenti mai studiati prima, come sociologia e statistica.
Come si svolge il tuo dottorato?
Permetto che ci sono due strade possibili durante una ricerca di dottorato: partire da una tesi e cercare di dimostrarla, oppure arrivare alla tesi dopo la raccolta di dati. La mia ricerca è un misto tra questi due approcci.
Durante il primo anno mi sono occupata di tutta la parte inerente lo studio bibliografico e la messa a punto di un metodo valido per la mia ricerca. Il prossimo anno mi occuperò della raccolta dei dati tramite interviste basate sul metodo stabilito ad architette che lavorino in Italia e in UK. Infine, il terzo anno procederò con l’analisi dei dati e con la stesura della tesi.
Non mancherà naturalmente un’analisi storica dell’architettura come professione: com’è nata e come si è sviluppata nel corso della storia e come si è evoluto il ruolo della donna professionista nel tempo.
Quali sono i dati più interessanti emersi finora?
Un primo dato drammatico è che spesso le donne, concluso il loro percorso di studi, abbandonano il mondo dell’architettura, prima ancora di aver mai praticato.
A sorpresa questo avviene più in Gran Bretagna che in Italia, e se si considera che il percorso di studi qui dura in totale 7 anni, fra triennale, primo anno di praticantato, specializzazione, secondo anno di praticantato e anno finale paragonabile al nostro esame di stato, la questione diventa estremamente seria. La percentuale di studenti di architettura al corso di laurea triennale è quasi 50-50 fra uomini e donne, mentre solo circa il 25% degli architetti iscritti come RIBA Part 3 sono donne: quello che cerco di capire è quali siano le cause per le quali avviene questo fenomeno.
Un altro fatto tipico è che le donne si trovano più spesso nella condizione di vedersi proposta una collaborazione part-time, che purtroppo nel campo dell’architettura viene ritenuto un lavoro con minore dignità, nonostante io sia convinta che invece sarebbe una strada per poter vivere e lavorare meglio tutti, uomini e donne. Ma per arrivarci bisognerebbe cambiare la mentalità generale e i condizionamenti che vengono imposti anche ai bambini maschi, educati nel mito dei “super uomini” che devono sempre lavorare.
Un tema centrale della mia ricerca è il confronto fra la situazione della professione in Italia e in Gran Bretagna, ovviamente con una particolare attenzione all’esperienza delle donne in questo campo, e quindi mi trovo ad indagare sui differenti concetti di famiglia, educazione, lavoro che le donne hanno in questi due paesi: quali sono i principi che vengono loro imposti e quali sono le situazioni che sperimentano sulla loro pelle.
Come si pone il tuo blog all’interno di questo percorso?
Il blog Women in Architecture è una sorta di giornale di ricerca e l’ho aperto con l’idea che potesse creare una sorta di comunità dove poter condividere esperienze e diffondere più consapevolezza per problemi che sono reali, dato che a volte nel quotidiano le esperienze, soprattutto quelle negative, non vengono condivise e questo contribuisce a far passare alcuni problemi sotto silenzio.
È importante rendersi conto che il sessismo nell’ambiente di lavoro esiste eccome e soprattutto che è sbagliato, e capire insieme che è possibile fare qualcosa per limitarlo.
Il blog è nato anche sulla scia dell’esperienza del progetto di Laura Bates “Everyday Sexism” con il quale l’autrice ha invitato le donne a condividere le esperienze di sessismo subito, dalle più piccole alle più serie, e in poco tempo si è trovata sommersa di storie. Finora, spesso sono state le donne stesse a far passare in secondo piano esperienze che però non possono più essere ignorante, ma finalmente ne stanno prendendo consapevolezza.
La sua esperienza mi ha dato carica ed entusiasmo e mi ha convinta che il lavoro che sto portando avanti non sia solo per me e per la mia tesi di dottorato, ma che debba essere legato ad una forma di attivismo che lo renda fruibile da tutti perché il numero maggiore possibile di persone sia informato.
Cosa farai una volta concluso il dottorato?
Mi piacerebbe continuare a lavorare in ambito accademico, nella facoltà di sociologia più che in quella di architettura, che ora sento essere il mio ambiente naturale. Se mi avessi fatto questa domanda poche settimane fa, ti avrei risposto senz’altro che la mia scelta sarebbe ricaduta su di una università inglese, ma dopo il voto sulla Brexit sono molto indecisa, tutto dipende da come si svilupperanno le cose nei prossimi mesi.
Io mi sono subito proposta volontaria per essere intervistata per la ricerca di Maria Silvia, se il mio profilo sarà idoneo: se anche voi foste interessate, potete scriverle a M.D-Avolio@sussex.ac.uk
Ciao! Un unico commento: per poter discutere il fatto che le sex-ratio è 1:1 all’iscrizione e 1:4 al momento dello svolgimento della professione andrebbero confrontate le stesse cifre nell’ambito di altre Facoltà quali, ad esempio, Ingegneria, Legge e Medicina. Il tutto per capire se il crollo delle donne dallo sfruttare professionalmente la loro laurea 1) riguardi la sola (o prevalentemente) facoltà di Architettura oppure 2) non sia piuttosto un fenomeno di portata più generale. Le conclusioni, se fosse vera l’ipotesi 1, sarebbero decisamente più interessanti e degne di ulteriore indagine. Non trovi?
Complimenti in ogni caso, buon lavoro e saluti a Eugenia!
Marco
Commento interessante, Marco, immagino sia più per Maria Silvia che per me, glielo faccio sapere 😉
Ciao Marco,
ti ringrazio molto per il tuo commento/suggerimento, soprattutto considerando la tua esperienza nel campo della ricerca (che mi e’ stata rivelata da qualcuno che ti saluta tanto). In effetti quello che sottolinei e’ stato proprio il punto di partenza che mi ha incuriosito e spinto ad intraprendere questo studio, ma per ragioni di spazio non e’ stato affrontato in questa intervista. La presenza delle donne e’ leggermente inferiore rispetto a quella degli uomini in molte professioni, ma una considerevole riduzione del numero si riscontra in tutte le professioni scientifiche (molte ricerche sono state fatte in diversi settori educativi e professionali). Architettura si colloca in una posizione bizzarra tra arte e scienza e, purtroppo, proprio le donne che iniziano questo percorso di studi ne pagano le conseguenze. Per esempio, molte meno donne rispetto a uomini iniziano a studiare ingegneria o matematica (o altre materie scientifiche), quindi e’ quasi naturale che ci siano meno donne impiegate in quelle professioni. Di conseguenza la differenza nel rapporto tra donne iscritte e impiegate sara’ meno evidente. Invece piu’ donne tendono a scegliere di studiare architettura (quasi la meta’ degli studenti), probabilmente in quanto percepita piu’ come artistica ed umanistica, ma solo meta’ di queste poi trova un impiego nel settore, sottolineando la gravita’ del fenomeno, specificatamente architettonico.
Mi fa piacere sapere che anche secondo te si tratta di un fenomeno interessante e degno d’indagine. E se avessi qualche altra osservazione o consiglio ti prego di farmene partecipe!
A presto,
Maria Silvia