Oggi festeggio un anno esatto di Archinoia. O meglio, è da un anno che scrivo questo blog, dapprima nella solitudine della mia cameretta, e dopo circa sei mesi con un po’ più di visibilità grazie ai social network: prima, timidamente, Twitter e Google+, poi Instagram, un grande amore, e infine la vetrina in piazza della pagina Facebook.
A dire la verità nella mia testa il blog è nato alcuni mesi prima, in una mattina d’inverno sulla linea M5 della metropolitana milanese: è stato lì che il nome Archinoia mi è giunto tipo illuminazione divina. Ad una prima verifica su Google, risultavano sotto il nome di Archinoia una bacheca di Pinterest di un architetto di lingua spagnola e il titolo di un articolo sulla Biennale di Venezia del 2014, “Archi-noia in Laguna”. Oh, non si inventa mai niente di nuovo: ma il dominio era libero e così me lo sono regalato.
E insomma ad un anno di distanza mi prendo un momento per fare il punto della situazione.
Le motivazioni che mi hanno portata a scrivere il blog in un anno non sono cambiate di molto: ma da allora come è andata? Continuo a fare fatica, sì, abbastanza. Tanti mi hanno chiesto: “Ma non ti piace il tuo lavoro? Perché fare l’architetto sembra una cosa figa”. E lo è, nella teoria, poi nella pratica il discorso è un po’ più complesso: ho tentato di spiegarlo con i cinque principi dell’archinoia.
Vi ho raccontato un po’ di me: non tanto, sono più quella brava ad ascoltare che quella che muore dalla voglia di parlarti di sé. Però ho scritto il resoconto dei primi maldestri tentativi di inventarmi un ipotetico nuovo lavoro, ho parlato dell’attrazione fatale per il mio divano nel periodo del Salone del Mobile, mi sono fatta pubblicamente i conti in tasca e ho raccontato le peripezie di architetti alle prese con un avvocato del lavoro. Ho tentato di interrogarmi sulla professione di architetto sia come figura in via d’estinzione sia come pioniere – ancora un po’ maldestro – alla ricerca di un cambiamento radicale, secondo alcuni dei mille punti di vista possibili.
Non ho una grande media di scrittura di post al mese – lo sapete com’è fare il nostro lavoro, il tempo per fare altro per qualche motivo è sempre troppo poco – ma gli argomenti di cui avrei voglia di scrivere mi si affollano nella testa. Che cosa significa essere un architetto freelance rispetto a lavorare in un grande studio, per esempio. E com’è la vita di una donna in cantiere o quali sono le difficoltà di vivere una maternità da architetta. Poi mi vengono in mente la polemica degli architetti low-cost su Groupon, e la verità, vi spiego, sul BIM in Italia, e poi mi fermo qui altrimenti è spoiler.
Ma confesso che la parte migliore di questo primo anno sono stati gli incontri con le persone che questo blog mi ha regalato, altri professionisti come me, che ho incontrato per la prima volta o che ho rincontrato per farmi raccontare a che punto fossero del loro percorso.
Sono gli “architetti che fanno cose”, come Valeria, architetta falegnama che con Controprogetto sta andando lontano. Anna, che ha chiuso il suo capitolo di architetta paesaggista per diventare artigiana e dedicarsi alla ceramica con Nigutindor. Elena, che al suo lavoro di architetta collaboratrice in uno studio ha affiancato la sua passione per l’arte raccontata ai bambini e vissuta insieme a loro, e che si sta trasformando in una Solfanarìa. Giulia, che, oltre ad occuparsi di retail, diffonde nel mondo coloratissimi tatuaggi temporanei con Titooforyou. Fabiana, che ha messo la parola fine al suo lavoro di progettista e perito per dedicarsi alla scena teatrale e al cabaret. Maria Silvia, che ha preso a cuore la questione di genere in architettura e la sta trasformando in una tesi di dottorato in una università inglese. Giuliano, che ha felicemente declinato le sue competenze progettuali nell’ottica degli allestimenti e delle scenografie.
E poi c’è stato chi mi ha raccontato le proprie esperienze lavorative all’estero, altra fissazione che ogni tanto ritorna e che porta a chiedersi se forse si sarebbe dovuta tentare questa strada (o se si è ancora in tempo per farlo).
E quindi sono partita dall’Europa – con Cristina che lavora come exhibition designer a Londra, passando dal Medio Oriente – con Francesco, geometra nel deserto kuwaitiano, per approdare all’Oriente più lontano – con Massimiliano e la sua esperienza di light designer in Cina, a Guanghzau, fino agli Stati Uniti – con Donatella, che lavora come interior designer nella Bay Area.
Oltre a tutti questi incontri, la vera sorpresa sono state le persone che ho conosciuto perché hanno per prima cosa – incredibilmente – letto quello che scrivo, e che hanno avuto la voglia di contattarmi per farmi sapere che condividono il mio punto di vista perché è anche il loro, oppure per dirmi che non sono del tutto d’accordo con me, ma che si pongono gli stessi interrogativi. O che si sono proposti per raccontarmi la loro storia. O che trovano di ispirazione le mie parole o le mie foto.
A voi devo un grazie perché mi aiutate a guardare con occhi diversi questo lavoro, o forse con gli occhi che avevo all’inizio, e a credere che questa cosa che mi sono impuntata di fare abbia un valore e non finisca dispersa nel vuoto cosmico dell’internet. Grazie davvero.
Per voi mi impegno a continuare ad annoiarmi.
Pe restare sul pezzo inconsapevolmente ho letto “A volte ti sembra che questo lavoro diventi quasi un MISSILE” 😉
Eh. Diciamo che a volte mi sento un po’ sparata nello spazio.
Ciao. Appartengo alla stessa categoria.
Ti ho incontrata di recente su Instagram dove penso il tasso di architetti sia altissimo, vuoi per mostrare il proprio lavoro vuoi per illustrare quello degli altri. O magari solo per raccogliere apprezzamenti per la propria capacità creativa che nel campo lavorativo mancano del tutto o quasi…
Anch’io alla fine di lavori complessi per clienti che poco hanno capito e meno hanno apprezzato, mi sono chiesta perché fare una professione che non ti gratifica ne economicamente ne psicologicamente.
Però spero ancora
ciao MG
E sì, Maria Grazia, è dura. A volte ti sembra che questo lavoro diventi quasi una missione e ti chiedi chi te l’abbia fatto fare.
Credo che ognuno debba riuscire a trovare un equilibrio fra le proprie aspettative / le proprie possibilità / quello che il cliente o il mercato ti chiede.
In bocca al lupo e grazie per il commento!